antonella cilento

La madonna dei mandarini: l'incipit

 

La massa preme per uscire. Scendono le scale nella folla che si riversa fuori ma, come ogni giorno, Statine prende la scala mobile, pensando di poter qui finalmente avvitare la sua stanghetta, e Filippo quella di marmo, per tenersi in movimento. Per un po’ sono paralleli, non c’è differenza fra le due lentezze, perché la scala mobile è appesantita dalla folla e sui gradini dell’altra si procede a passo di formica. Non si parlano, il rumore e gli odori li assorbono.

Poi, inattesa, la catastrofe: una vecchia con un carrello pieno di melanzane e friarielli urla.

«Ommeeeeeeeemè!!!».

Il bambino rom che le ha sfilato qualcosa dalla saccoccia – il portafogli, una melanzana o forse un caspito di santino, chi può dirlo – annaspa, scavalcando la densa foresta di braccia e gambe in una fuga rapidissima, come un genio cinese in volo fra i tetti.

Statine si mantiene gli occhiali, si stringe al libro di anatomia e cerca con lo sguardo Filippo, come chi ha bisogno di una bilancia per esistere, un perno, un polo d’attrazione.

E Filippo, occhi sgranati come un santo durante la visione, fa lo stesso con Statine: i simili, i vicini, la famiglia, benché detestata, che si dà aiuto nella folla.

La corsa del ragazzino finisce subito: troppa gente per scappare e poi Piscinola è piena di polizia, di sorveglianti, di telecamere. Lo afferrano per un braccio, gli tolgono la cosa che ha rubato. Il popolo della metropolitana si affaccia per vedere di che si tratta. La vecchia si fa spazio a ceffoni fra la gente.

«‘Stu chiaveco! ‘Sta mmerda! Faciteme passà!».

E oltre a una serie di rassicurazioni riceve in cambio il maltolto, ovvero la tessera dell’abbonamento ai mezzi pubblici. Però bisogna salvare il bambino rom, che avrà al massimo sette o otto anni, dalle mazzate della signora: «Damme ‘a tessera mia!» allucca, quando ormai la tiene già in mano e la sventola come l’onore perduto. «Se vuleva piglià ‘a tessera miaaaa!».

«Mo chesta se fa venì na mossa» commenta Filippo ma Statine si è già diretto al fronte di obliteratrici per il cambio verso Aversa.

«Statì? Statì, aspetta!» gli corre dietro Filippo. E quando lo raggiunge: «‘Sti mariuole ‘e rom...».

Statine si ferma, lo squadra e tace.

Filippo mangia la foglia e, rancoroso, attacca: «Sé, sé, fai ‘o comunista, tu! Voglio vedè quando ti fottono il portafoglio a te!».

«E sai che affare» mormora fra i denti Statine.

Alla barriera per Aversa di solito ci sono i “freschi”, i saltatori che zompano oltre le obliteratrici tanto per far vedere, come se fossero alle olimpiadi. Una dimostrazione di agilità che è puro spreco di energia: per andare ad Aversa non c’è un biglietto nuovo da pagare, né si deve obliterare il vecchio. Gli impiegati della metro sogghignano e fumano, quando qualcuno fa troppo lo splendido lo mazzolèano. Oggi, a causa del tentato furto, i “freschi” sfidano gli impegati solo a parole: «Stammatina v’‘a facimmo bbona... Nun tenimmo genio ‘e zompà!» e ridono.

«Circolare, circolare» ripete pigramente un impiegato baffuto mentre i colleghi tornano nel gabbiotto a guardare i monitor e a spegnere le sigarette.

«È vietato fummà ccà dinto...» sfotte allontanandosi uno dei freschi, ma la sua voce è già un’eco.

Filippo riprende il discorso iniziato in metropolitana: «Se non ci fosse ‘o “presidente” pure io e te faremmo gli scippi...».

Statine si stringe nelle spalle, lo ignora.

«Dobbiamo tutto alla famiglia del “presidente”. E pure all’Avvocato».

Statine alza gli occhi e squadra l’amico.

«L’Avvocato?».

Filippo si morde le labbra, c’è cascato, mossa sbagliata.

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